Così come ogni nuovo passo avanti per l’umanità è da sempre stato preceduto da grande scetticismo, da forte contrapposizione in un secondo tempo e, infine, da un crescente apprezzamento quando divenivano ovvie le premesse e inconfutabili i risultati, anche nel caso di un certo tipo di ricerca, definita dalla comunità scientifica spesso troppo facilmente come pseudoscienza, le teorie biofotoniche sono state inizialmente disconosciute.
La frammentazione superspecialistica purtroppo non favorisce una chiara visione olistica dei comportamenti biologici, ampiezza che inevitabilmente la scienza e la medicina dovranno accettare se vorranno superare i limiti dell’attuale paradigma.
Questa esclusione sistematica delle indagini sui biofotoni dalla scienza accademica era stata inizialmente favorita dall’intensità ultra-debole dei biofotoni dei sistemi biologici; ma nel 1976 fu dimostrata senz’ombra di dubbio, tramite fotorivelatori sensibili detti fotomoltiplicatori, l’emissione spontanea di quanti di luce nei sistemi biologici che permette loro di scambiare informazioni anche a lunga distanza.
Il termine “biofotoni” indica quindi l’emissione da parte dei sistemi viventi di energia che si propaga alla velocità della luce.
Ogni cellula emette segnali specifici, con caratteristiche proprie e di quelle del tessuto di cui fa parte. L’emissione di biofotoni può anche essere paragonata a quella dei laser in cui i fotoni assumono una forte coerenza di fase delle onde elettromagnetiche, la stessa coerenza riscontrata anche nei biofotoni.
Gli organismi in buona salute infatti emettono luce coerente (da un punto di vista elettromagnetico), mentre in quelli malati la coerenza di emissione è assente, o in alcuni casi addirittura ipercoerente, come nel caso dei malati di sclerosi multipla.
In generale un’emissione disorganizzata di biofotoni, o addirittura l’interruzione del flusso, scompenserebbe l’organismo facendolo disfunzionare, declinando nella malattia.
La presenza di virus, batteri o di sostanze tossiche riuscirebbero ad alterare questo equilibrio di emissione e assorbimento danneggiando l’organismo; questo perché Il supporto essenziale dell’irradiamento biofotonico è il DNA, l’acido desossiribonucleico, una parte costituente della cellula nei cui cromosomi sono contenute le informazioni genetiche di un sistema biologico.
Il DNA consiste in una decina di miliardi di molecole formanti una spirale: esso contiene tutte le informazioni che fanno di un essere ciò che è. Possiamo pensare al DNA come ad una sorta di “antenna elettromagnetica” che, funzionando da stazione ricetrasmittente, assimila informazioni da inoltrare alle nostre cellule, guidandone ogni processo, sia che queste informazioni giungano dall’interno ovvero dall’esterno. L’intensità di questa luce è certo estremamente minima, paragonabile a quella di una candela posta a 20 chilometri di distanza; in compenso però essa possiede quella speciale qualità di “coerenza” che la predispone ad essere trasmettitrice di informazioni.
Il biofisico tedesco Fritz Albert Popp, teorico della biofotonica fin dagli anni ‘70, sosteneva che l’energia elettromagnetica gioca un ruolo fondamentale nella sfera biologica dei viventi.
Anche Heinsenberg (Premio Nobel per la Fisica) affermò che “l’energia elettromagnetica è la forma di energia elementare da cui dipende tutta la vita di un organismo”, poiché capace di modificare l’energia cinetica a livello atomico e molecolare.
In accordo con la teoria dei biofotoni si ritiene che sulla base dell’attività di informazione del DNA, si auto-organizzi una rete interattiva, correlata in particolare agli organelli cellulari chiamati mitocondri e considerati le centrali energetiche delle cellule, capace di regolazione a distanza delle principali attività di tutti i processi vitali di morfogenesi, crescita, differenziazione e rigenerazione cellulare.
I biofotoni così, nell’ambito dei rapporti intracellulari, rappresenterebbero un vero e proprio linguaggio in codice per la trasmissione di informazioni biofisiche.
Secondo il neurofisiologo Karl Pribram, il campo biofotonico del cervello e più in generale del sistema nervoso, potrebbe essere concepito come una interfaccia transdisciplinare capace di integrare aree di conoscenza non fisiche relative alle attività della mente, quali il pensiero, la psiche e l’evoluzione della coscienza: una concezione di mente olografica sviluppata insieme al professor Bohm e sovrapponibile all’idea di mente olotropica di Stanislav Grof. Evidentemente questi studi di Popp, Pribram ed altri non erano comprimibili nel modello tradizionale della scienza meccanica riduzionista e ciò provocò una netta resistenza dalla scienza accademica che vedeva ancora la teoria biofotonica come una inusuale scienza di frontiera.
La Biochimica è la chimica che si svolge all’interno di sistemi viventi in ambiente sostanzialmente composto da una miscela proteica ed acqua e in cui la rete dei legami idrogeno conferisce plasticità alla struttura delle proteine determinando la loro specificità funzionale nelle interazioni intermolecolari. Questa struttura dinamica si comporta come un “Biocampo Quantistico” (Quantum Biofield) che permette il trasferimento di biofotoni ultra-deboli a vasto raggio di azione nella cellula.
- Ma come possiamo utilizzare le nostre conoscenze riguardo al Biocampo Quantistico per migliorare il nostro stato di salute?
- Quali tecniche e strumenti possiamo tutti utilizzare per equalizzare un campo dinamico di “energia di informazione”, il quale svolge un ruolo sostanziale nell’evoluzione dei percorsi metabolici e neurologici propri della costruzione e distruzione continua della vita biologica?
Nel prossimo articolo scoprirete come si possa imparare a mantenere la propria energia vitale ad alti livelli usando la luce!

Ricercatore olistico. Formatore in Discipline Bionaturali. Kinesiologo. Membro della Commissione Tecnico-Scientifica dell’Unione Italiana Professioni Olistiche